Intervista con il Presidente della SPI Anna Nicolò

Sabato 8 Luglio 2017 il Centro di Psicoanalisi di Palermo ha ospitato il Presidente della SPI Anna Maria Nicolò. Abbiamo colto l’occasione per farle alcune domande, affrontando importanti temi della psicoanalisi attuale e futura. Ecco l’intera l’intervista, a cura di Daniela Gallo, Psicoanalista, membro associato SPI e socia del Centro di Psicoanalisi di Palermo.

 

Anna Maria Nicolò, Neuropsichiatra infantile, Psicoanalista con Funzioni di Training e grande Esperta di psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti.

Il 25 novembre 2016 Anna Nicolò è stata eletta Presidente della Società Psicoanalitica Italiana, che sarà dunque da Lei guidata per i prossimi quattro anni, insieme ai componenti della sua squadra.

Presidente, dopo la Principessa di Lampedusa, Alessandra Tomasi di Palma, che ricoprì il ruolo dal 1954 al 1959, nessuna donna era stata più eletta alla Presidenza. Che effetto ha su di Lei questo?

«Una grande responsabilità, visto che i colleghi hanno deciso di eleggere me, eleggere una donna. Credo sia un po’ lo specchio dei tempi, quantunque la Psicoanalisi abbia delle maestre, come la Klein, Anna Freud, Chasseguet-Smirgel e moltissime altre donne. Credo che sia un impegno in più che mi sono presa e una grande responsabilità.»

Ci racconti brevemente qualcosa di sé: nella sua vita, oltre la passione per la Psicoanalisi, che altre passioni coltiva?

«Ho due figli, ambedue medici, e ambedue con specializzazioni diverse dalla mia, e da poco ho avuto una nipotina che in verità costituisce al momento la passione, nel senso che occupa tutti i miei tempi liberi, che per la verità sono pochi. Ho passione per la letteratura, e mi piace molto il cinema, in particolare i film di fantascienza. Green diceva che la fantascienza è una specie di delirio lucido, quindi ogni volta che mi immergo in un film o in una storia di fantascienza, percorro una parte, che forse è imprevedibile ma che diventa a tratti sempre più comune nella nostra vita.»

Riguardo il suo mandato da Presidente: qual è, secondo Lei, il compito più gravoso che l’attende?

«Compiti gravosi ne ho visti molti, e non so se riuscirò a realizzare, insieme al nuovo esecutivo, tutti i progetti che vorrei; mi sembra importante però gettare un seme, un seme di cambiamento. Il primo cambiamento è la condivisione: cioè costruire insieme un cambiamento. Il secondo è lo studio del cambiamento dell’identità dell’analista, oggi molto diversa da quella di una volta, sia pure in continuità con aspetti comuni che caratterizzano l’analista fin dall’inizio di questa professione. Però oggi la sua declinazione è differente, a mio avviso dev’essere una rideclinazione nelle istituzioni, una rideclinazione nella cultura, una rideclinazione nella società. Per questo ho pensato nel mio programma un lavoro nelle istituzioni e nel sociale, e ho pensato alla fondazione dei centri clinici come progetto che è nel contempo di ricerca e di apertura al sociale.»

Per mezzo del cosiddetto Junktim freudiano fra teoria, metodo e cura, sappiamo che la via della conoscenza e la via della cura combaciano. Ma, per chi non è del mestiere, Presidente, come cura la Psicoanalisi?

«C’è molta ignoranza intorno alla psicoanalisi e noi abbiamo una grande responsabilità per il fatto che la società e le altre psicoterapie, non ci conoscono. La psicoanalisi oggi, se diamo retta ai film, è diventata una specie di strumento che crea una macchietta: l’analista sempre in silenzio e che fa sempre molte sedute in una terapia che non finisce mai. Questa è una barzelletta, ma la verità è che noi stessi diamo adito a questo fraintendimento. La psicoanalisi è innanzitutto un funzionamento della mente, un funzionamento della relazione in seduta col paziente e può essere applicata a differenti setting. Io faccio da molti anni supervisione in una comunità terapeutica per giovani psicotici la quale, a mio avviso, anno dopo anno e paziente dopo paziente, è diventata progressivamente una comunità terapeutica a impostazione psicoanalitica, dove tutti gli operatori condividono questo modello, e dove l’applicazione della psicoanalisi, io credo, trova una delle sue occasioni migliori di cura del paziente. Poi c’è la psicoanalisi a quattro sedute, la psicoanalisi di formazione del candidato, la psicoanalisi dei pazienti che vogliono approfondire stati primitivi della loro mente; e poi ci sono tanti tipi di psicoanalisi da applicare, nei gruppi, nelle coppie, nelle famiglie. Quindi la psicoanalisi è variegata, articolata, ricca, creativa e anche progressivamente capace di mettere in discussione se stessa sulla base di dati fondamentali, che accomunano tutti gli psicoanalisti e che condividono tutti gli psicoanalisti.»

Si parla molto di crisi della psicoanalisi e di crisi delle istituzioni psicoanalitiche. Quali sono, in sintesi, le cause e come dobbiamo affrontare la crisi secondo Lei?

«Io, l’ho detto più volte, non credo nella crisi della psicoanalisi, io credo nella crisi di alcune istituzioni psicoanalitiche. La malattia di alcune istituzioni psicoanalitiche è stata descritta negli ultimi 40 anni in vario modo e da vari analisti. La verità è che le istituzioni psicoanalitiche, come tutte le istituzioni, hanno la necessità di continuare a perpetuare se stesse. E questo lo fanno sulla base di alcuni meccanismi difensivi che sono: la marginalizzazione di alcuni psicoanalisti, l’infantilizzazione dei candidati, l’idealizzazione di alcuni principi che vengono ritenuti fondamentali come se fossero dei credi religiosi. Ma questa è la malattia delle istituzioni, non è la crisi della psicoanalisi. La psicoanalisi in varie parti del mondo sta dimostrando una grande creatività. Noi abbiamo molte ricerche, e molti studi e molti colleghi che, in modi differenti, mostrano una creatività e un’originalità straordinarie.»

Oggi ci confrontiamo con situazioni cliniche in cui abbondano fenomeni caratterizzati dall’evitamento della sofferenza e dal ricorso a facili appagamenti sostitutivi che, però, sono privi di significato. Siamo nell’era dei “nativi digitali”, per i quali aggirare gli ostacoli posti dalla realtà è particolarmente agevole, mentre pericolosamente elevato è il prezzo che si paga: l’eclissi della centralità del corpo. Noi psicoanalisti cosa possiamo fare?

«Possiamo fare moltissimo. La nostra società attuale sta mostrando grandi problematiche e malattie che sono epidemiche. Le malattie epidemiche cui noi oggi assistiamo hanno sintomatologie che si aggrappano al corpo; questo accade particolarmente negli adolescenti, che si aggrappano al corpo come roccia basilare, per sentire di avere un sé e un’esistenza. Faccio riferimento alle epidemie di anoressia e bulimia, alle epidemie di self-cutting, o di tatuaggi, per dirne solo alcune. Sono tutte delle sindromi psicosociali, per usare il termine che usava Di Chiara già molti anni fa, di cui la psicoanalisi, e non soltanto quella dell’adolescenza, si occupa. La psicoanalisi dell’adolescenza in particolare si occupa di quella che è una delle sfide fondamentali di quest’età, cioè l’integrazione della novità del corpo sessuato, e quindi aiuta il paziente a integrare le nuove sensazioni connesse con la novità della sessualità e la novità del corpo sessuato. Alcune nuove frontiere della psicoanalisi stanno oggi studiando come il corpo esprima disagi non rappresentati, traumi non ricordati che si manifestano attraverso di esso. Winnicott diceva che il corpo non dimentica niente, e questo è vero, e oggi l’attenzione ai livelli del corpo, al linguaggio del corpo -che a volte l’analista sente con la propria rêverie somatica- ci apre un enorme campo di studi, che è il campo che riguarda gli stati primitivi della mente.»

Nella psicoanalisi odierna troviamo, nelle varie correnti e modelli, ricorrenti tentativi di tagliare fuori la sessualità dalla teoria e dalla pratica dell’analisi; una rinuncia, in sintesi, alla sessualità come motore della vita psichica. La domanda che negli ultimi anni si poneva André Green e che Fernando Riolo ci ha rilanciato, è: gli psicoanalisti hanno ancora bisogno della sessualità? Di ancorare il loro discorso alle “catene di Eros”? Oggi giro a Lei questa domanda.

«Green parla con preoccupazione di quella che lui definisce la progressiva desessualizzazione della psicoanalisi. In un famoso articolo si chiede che fine abbia fatto la sessualità nella psicoanalisi oggi e se la psicoanalisi oggi parli ancora di sessualità. Questo è sicuramente un problema importante e mostra il cambiamento nel corso del tempo. Widlocher, con acutissima notazione, dice che c’è stato un dibattito mai avvenuto tra la scuola di Londra e quella di Vienna. In effetti la grande scoperta di Freud non è stata solo quella dell’inconscio, ma anche la natura sessuale dell’attaccamento del bambino alla madre. L’opposizione che si è venuta a determinare fra la scuola della teoria delle relazioni oggettuali, come riconosce Green, e la scuola di Vienna, nasce proprio dalle posizioni di Balint, o dalle posizioni di Fairbairn, che sosteneva che l’Io non è alla ricerca del piacere, ma è alla ricerca dell’oggetto. Quindi è vero che c’è stata un’opposizione, mai discussa fino in fondo, tra gli psicoanalisti da un lato che guardano agli stati primitivi della mente, alla patologia come disturbo del pensiero, come problematica di impingement traumatici o che seguendo Winnicott parlano dell’immaginazione, della fantasia e dell’illusione e soprattutto focalizzano il loro lavoro, la loro teoria, sulla relazione tra la madre e il bambino -Winnicott diceva che non esiste un cosa chiamata bambino-, e tutti coloro che dall’altro lato invece sono rimasti fedeli al modello freudiano e all’importanza cruciale della sessualità nell’attaccamento tra il bambino e la madre. Tuttavia, come notava lo stesso Widlocher, si è dimenticato il fatto che Freud parlava dell’importanza dell’aspetto dell’appoggio, e questo dà grande rilevanza anche al legame con l’altro. Cioè secondo Freud le pulsioni di autoconservazione sono certamente importanti, ma la sessualità infantile si appoggia sulla funzione dell’autoconservazione, e con questo ha assolutamente riassunto e anticipato tutte le teorie psicoanalitiche successive che hanno dato particolare importanza proprio all’autoconservazione, all’integrazione del bambino e all’integrazione del sé, quindi la sua teoria non è basata solo sul sessuale, ma anche sull’appoggio, sull’autoconservazione della vita. Io credo che quello che è dirimente tra la teoria di Freud e tutte le altre teorie successive legate alla scuola delle relazioni oggettuali -kleiniani, winnicottiani e anche relazionali- è l’importanza che viene data all’altro, all’oggetto, alla persona, sia nella costruzione del sé del bambino, che nella vita di tutti i giorni, che nella seduta psicoanalitica. Questo è, io credo, l’elemento cruciale dirimente, perché oggi il nostro lavoro è centrato molto sulla relazione, sulla coppia analitica, sulla persona dell’analista, e questo è condiviso da moltissime scuole analitiche del mondo. A onor del vero, dobbiamo dire che, come notava un’analista winnicottiana, Lesleye Caldwell, a volte gli analisti che seguono queste scuole dimenticano la natura sessuale del transfert, e dimenticano del materiale del paziente: questi aspetti legati alla sessualità. Però io credo che oggi l’importanza che viene data all’altro nella costruzione del sé, e l’importanza che viene data alla relazione nella coppia analitica, nel setting, nel campo, a secondo delle teorie che possiamo seguire, sia un elemento assolutamente cruciale e dirimente.»

Sul piano biologico non c’è discontinuità nello sviluppo sessuale dell’essere umano, mentre sul piano psicosessuale c’è invece una fase di arresto: la latenza. In questo momento storico, chi lavora con i bambini percepisce che la fase di latenza si è attenuata. Com’è cambiata la sessualità? Lo sviluppo psicosessuale?

«In effetti abbiamo questa sparizione della fase di latenza che è abbastanza preoccupante, abbiamo una precocizzazione della sessualità. Ma ciò che è veramente impressionante è la scissione dell’agire sessuale dalla dimensione affettiva e del pensiero, e dalla capacità di riflettere su quale significato abbia la sessualità. Mi ricordo una supervisione che mi portarono, di una ragazza che aveva avuto agiti sessuali ripetuti all’interno della sua scuola, ma che quando si innamorò per la prima volta di un ragazzo, aveva paura del rapporto sessuale con lui come se fosse stata la sua iniziazione. La verità è che oggi ci sono molti agiti della sessualità, che non sono accompagnati dalla dimensione affettiva e del pensiero e quindi non sono integrati, non sono pensati, non sono rappresentati. Questo è un problema serio che riguarda la nostra società e c’è una grande influenza del gruppo a questo proposito, perché l’accettazione del gruppo, la quantità di mi piace che un ragazzo può avere su Facebook, è la misura di quanto può essere accettato e questo diventa più importante della conferma del senso di sé. Una cosa di cui ho parlato è l’aspetto dell’identità estetica; a volte questo aspetto, cioè di come si appare e della risposta che l’altro dà a come noi appariamo, diventa per i ragazzi più importante di come si è veramente. Questa scissione del corpo dalla mente è drammatica, perché porta, come è successo recentemente, a situazioni, per esempio, di precocissime prostituzioni, ed è come se il corpo diventasse un oggetto, come un giornale: io lo leggo e poi lo butto! Questa scissione tra il corpo e la mente è uno dei problemi più seri in cui ci imbattiamo nell’analisi degli adolescenti. Sicuramente c’è anche una modificazione del funzionamento genitoriale e della famiglia, intendo la mancanza dell’altro, la cui presenza avrebbe invece permesso a questi ragazzi di ripensare il senso della loro identità e di fare le tappe evolutive più importanti di questa età della vita, come allontanarsi dai genitori, soggettivarsi e via discorrendo.»

Lei pensa che gli adolescenti di oggi siano diversi da quelli di ieri?

«Gli adolescenti di oggi si manifestano in un modo drasticamente differente, fanno molta, ma molta più fatica per fondare la propria identità, per soggettivarsi. La dimensione della fratria, quindi la dimensione del gruppo, è diventata più importante rispetto alla dimensione asimmetrica della genitorialità. C’è una maggiore confusione tra le generazioni e tra i sessi, e questo naturalmente rende il processo molto più faticoso.»

Quindi è anche più arduo essere genitori oggi?

«È più arduo essere genitori perché c’è una dispersione maggiore rispetto a una volta. La pelle, il confine che una volta aveva la coppia genitoriale e anche la famiglia, consentiva l’acquisizione di una differenziazione rispetto all’esterno, e favoriva anche la differenziazione dei figli. Poi c’erano sicuramente dei ruoli e delle funzioni più definite, e questo naturalmente era meno confondente. Lévi-Strauss parla dell’esistenza di 54 o 58 tipi di famiglie. Noi ci dobbiamo abituare a un tipo di famiglia e un tipo di società differenti, e dobbiamo essere capaci di sviluppare delle teorie, dei modi e delle tecniche per affrontarli, pur nella nostra continuità. Oggi abbiamo molti tipi di Edipo differenti, se pensiamo alle famiglie omoparentali, alle famiglie omogenitoriali, a un bambino che nasce da una madre surrogata e che poi viene adottato da una coppia. Quanti tipi di Edipo esistono? La nostra società ci sfida moltissimo su questi piani, credo che dobbiamo fare una profonda riflessione sui cambiamenti della famiglia e della sua composizione.»

Il dibattito, a volte aspro, sulla specificità della psicoanalisi, mette in pericolo la nostra disciplina? Lei pensa che la specificità possa derivare, come in ogni scienza, dal progredire della ricerca, e che quindi possa essere nella ricerca la soluzione di certe controversie?

«A proposito di specificità, abbiamo molte psicoanalisi. Credo che ci sia un common ground di queste psicoanalisi, per esempio nell’esistenza dell’inconscio, oppure nel fatto che sul piano della formazione il giovane analista sottopone se stesso allo stesso strumento di cura e di indagine a cui sottopone i suoi pazienti; noi siamo allenati a guardare nel paziente qualcosa che contemporaneamente guardiamo in noi stessi, a me sembra che questo sia qualcosa di molto specifico per noi, che non è presente in altri modelli di psicoterapia. Credo che la nostra specificità vada guadagnata, momento per momento, vada ripensata momento per momento. Ma abbiamo delle basi molto importanti, dentro di noi e nel movimento psicoanalitico, che ci consentono di fare questa crescita.»

Il progetto dei Centri Clinici è un punto cardine del suo programma. Il centro clinico è uno strumento fondamentale per cambiare l’immagine che di noi diamo all’esterno, come Lei ha detto nel suo programma; ma credo sia anche strumento per riportarla all’esterno questa immagine, laddove non è più presente da tempo, in specifici ambiti istituzionali. E’ d’accordo?

 

«Sì sono d’accordo. I centri clinici avranno parecchi scopi, e uno di questi, tornando alla ricerca, è che al suo interno si possano produrre delle ricerche; ma lo scopo principale è quello di aprire la psicoanalisi alla società, infatti abbiamo pensato a dei prezzi sociali calmierati. Un altro degli scopi è riuscire ad aiutare i candidati e gli analisti ad avere accesso a molti tipi di pazienti e non soltanto a quelli a cui si propone la classica psicoanalisi. Quindi l’aspirazione, l’augurio, è che siano degli strumenti importanti del nostro dialogare con l’altro e dialogare con la società, e uno di questi dialoghi è sicuramente con le istituzioni. Credo che i centri clinici dovrebbero anche convenzionarsi con le istituzioni, per offrire loro un lavoro che dobbiamo riconoscere essere estremamente raffinato e utile. Noi possiamo fare un lavoro anche breve, non solamente una psicoanalisi classica duratura nel tempo, possiamo fare un lavoro mirato, con i gruppi, con i genitori, ci possiamo occupare di vari tipi di patologia. Tutto questo è, nella mia fantasia e nel mio augurio, la possibilità di uno sviluppo del centro clinico che è quindi un luogo di fermento, di creatività che gli psicoanalisti possono cominciare ad avere tra di loro e con gli altri.»

Presidente, secondo lei, dove va la Psicoanalisi?

«Dove va la psicoanalisi non lo so, dove vanno i miei progetti neppure. Io credo però che sia importante seminare; a volte chi semina non raccoglie, ma ha seminato. Io credo che insieme stiamo seminando delle idee, che potranno non fiorire e potranno nello stesso tempo portare a un albero o a una foresta. Naturalmente l’augurio è che si generi una foresta, ma io penso che se noi non osiamo, se noi non osiamo mai, non avremo mai nulla. Una certa dose di illusione è alla base del nostro funzionamento. Il bambino ha bisogno dell’illusione che la madre gli dà, prima di essere disilluso. Poi la madre lo disillude e lui quindi avrà un accesso alla realtà, perché si accorgerà che il suo oggetto trovato non è la stessa cosa dell’oggetto creato, come dice Winnicott. Ma una certa dose di illusione è alla base della nostra immaginazione ed è alla base della nostra creatività, per cui mi illudo e mi auguro che questo seme, non so quando, non so con chi, possa germogliare.»