Sabato 26 febbraio 2005 Francesca Borrelli, per Il Manifesto, ha intervistato Fernando Riolo alla vigilia dell’inizio del suo mandato di Presidente della Spi |
In questo incontro Fernando Riolo parla dei rapporti con la psichiatria, con le neuroscienze, con il cognitivismo, e dà un quadro delle forme contemporanee della sofferenza mentale |
Quando racconta di sé Fernando Riolo, che da domani assumerà la presidenza della Società italiana di psicoanalisi, tiene a citare accanto alla sua passione professionale, altre passioni più private: l’astronomia e il jazz. «Se rinascessi penso che farei l’astrofisico.» Palermitano, ha una formazione filosofica consumata a Firenze con Cesare Luporini e soprattutto con Eugenio Garin, «da lui ho appreso l’abitudine a un contatto diretto con i testi, e ho assorbito quel metodo storico allo stesso tempo rigoroso e indiziario che è il più imparentato con quello analitico.» Tra i suoi compagni di università c’era Partenope Bion, figlia del grande psicoanalista inglese, che contribuì a indirizzare i suoi interessi e la sua tesi verso la teoria freudiana e, finalmente, l’incontro con Francesco Corrao lo portò a maturare l’esperienza diretta di una analisi. Per otto anni Riolo nutrì la sua formazione con il lavoro all’ospedale psichiatrico di Palermo, il cui direttore era in rotta con l’orientamento organicista: «fu un momento fortunato, ci venne permesso di fare coincidere la possibilità di sperimentare nuove forme di comprensione della malattia mentale con la rivoluzione attuata da Basaglia e con le prime esperienze di lavoro sui gruppi.» Il nostro incontro è avvenuto a Roma, dove Riolo approda spesso per insegnare agli allievi della Società di psicoanalisi.
Negli ultimi anni la psicoanalisi italiana si è preoccupata di rinsaldare rapporti di scambio soprattutto con la filosofia e con la letteratura, ma la sua voce è pressoché muta nel campo della psichiatria, dove si sta consumando una offensiva organicista, pericolosa e in mala fede. Sembra che gli psicoanalisti abbiano perso voce in capitolo, tanto che nelle istituzioni si è ormai consumata una politica di dissuasione dalla psicoterapia. La psichiatria, d’altro canto, preferisce attingere i suoi strumenti alle neuroscienze e al cognitivismo. Fa parte dei suoi propositi riattivare i rapporti con quegli psichiatri che assumono la cura fondata sulla parola come un tramite ineludibile con la mente, in quanto produttrice di senso? Non direi che gli psicoanalisti abbiano del tutto trascurato i legami con le istituzioni psichiatriche: circa il venticinque per cento di noi opera nel sistema sanitario nazionale e un altro venticinque per cento lavora nelle strutture di formazione. Piuttosto, la politica sanitaria di questi ultimi anni, tutta orientata a una logica manageriale, ha ricacciato fuori dalle strutture di diagnosi e cura non soltanto gli analisti ma anche anche gli psichiatri orientati dinamicamente. Si è riproposto, dunque, il conflitto con una psichiatria impostata su criteri meramente pragmatici: le aziende devono funzionare con criteri di economicità e ottenere risultati rapidi, si dice; anche le patologie gravi devono essere affrontate sintomaticamente, cioè con i farmaci, così le prime a venire spazzate via sono le psicoterapie, che d’altra parte non sempre sono state condotte con il rigore e la competenza necessari. E questo ha determinato un certo scetticismo sui loro risultati. Quel che più ci preoccupa, ora, è il progetto di legge preparato per abolire la 180. Vi si ripropone, tra l’altro, la distinzione tra le cosiddette sofferenze esistenziali, che potrebbero comprendere qualsiasi cosa e delle quali potrebbe occuparsi chiunque – che so i religiosi o i maestri di ginnastica – e le malattie mentali, che dovrebbero essere oggetto delle cure mediche. Col risultato che queste forme di dolore mentale vengono obiettivate come fossero malattie biologiche, mentre le altre restano semplicemente ignorate. Ma come si fa a stabilire dove comincia un tipo di sofferenza e dove finisce l’altra? Una simile distinzione fa retrocedere il pensiero psichiatrico di un secolo. Oggi sappiamo che coesistono, nella nostra mente, parti nevrotiche, parti psicotiche e parti che si adoperano continuamente a mettere in rapporto le une e le altre con la realtà: le differenze dipendono dalle relazioni dinamiche e quantitative che queste parti intrattengono tra loro e dall’interazione che esse hanno con il mondo esterno. Dunque non possiamo concepire alcun sistema di cura che si basi su nette distinzioni e oggettivazioni categoriali. Dopo trentadue anni di lavoro ho perduto qualunque forma di estraneità anche rispetto ai miei pazienti più gravi, sento con loro una contiguità molto forte. Per quel che riguarda, invece, il rapporto della psicoanalisi con le neuroscienze, da questo campo stanno venendo conferme importanti. Mi riferisco proprio alle teorie più discusse come quelle dell’inconscio, della memoria, o della rimozione; e adesso si è anche scoperto che la parola – su cui la psicoanalisi fonda la cura – interviene sui mediatori neurochimici delle connessioni sinaptiche determinandovi cambiamenti più o meno stabili. In realtà non esiste alcuna contraddizione tra le ipotesi della psicoanalisi e quelle delle neuroscienze, la contrapposizione si fonda su un fraintendimento, su una visione della psicoanalisi deformata in senso spiritualistico. Ma la psicoanalisi è piuttosto una scienza materialistica: Freud ruppe il dualismo cartesiano rivendicando l’unità mente-corpo e l’origine biologica di tutti i processi psichici. Il che, d’altra parte, non autorizza affatto quel riduttivismo che istituisce tra cervello e mente rapporti di causa e effetto, come tra la pistola e lo sparo. La relazione è circolare e reciproca, somatopsichica e psicosomatica: lo dimostra, appunto, il caso della parola. Sono come due facce della stessa mano, due vertici descrittivi di un processo che è unico e può essere indagato da tutte e due le parti. Se perciò dovessi dire chi sono i nostri avversari, direi che sono quelli di sempre: il coscienzialismo, l’irrazionalismo, che ricompaiono oggi nelle forme dello zeitgeist postmoderno. Questo tipo di pensiero nichilistico, illusionistico, confusivo, fa una grande marmellata di teorie e di concezioni del mondo ed è penetrato nella cultura, nella politica e anche nelle scienze sulla scia di una lettura tendenziosa del famoso aforisma di Nietzsche «non esistono fatti ma solo interpretazioni». Certo, il concetto di realtà non è più oggettivabile, non corrisponde più a quello che potevano avere i positivisti: si è relativizzato, indebolito, tiene conto delle interazioni con il soggetto conoscente. La psicoanalisi forse più di ogni altra disciplina ha contribuito a rompere il legame di semplice rispecchiamento tra il dato e la sua rappresentazione: questa, infatti, non è mai una riproduzione fedele del dato, ma una sua trasformazione ad opera del soggetto inconscio, e richiede pertanto, per essere compresa, una interpretazione. Però, a partire da questa consapevolezza, le derive del pensiero postmoderno sono approdate a un totalitarismo ermeneutico altrettanto riduttivo del realismo ingenuo: la conoscenza è tout court una creazione del soggetto. Dunque anything goes, tutto è possibile e tutto può essere ugualmente vero e falso. Ora affermare che il dato di realtà è inscindibile dalla sua interpretazione non implica affatto che l’esistenza stessa del dato proceda dalla sua interpretazione e sia ininfluente nel determinarla, nel vincolarne i limiti. Dobbiamo invece riconoscere, come diceva Feyerabend, un epistemologo certo non sospettabile di realismo, che nonostante tutto c’è una certa resistenza nella realtà rispetto al libero dispiegarsi delle interpretazioni. Per questo sono dell’avviso che la psicoanalisi non possa risolversi in un’ermeneutica del senso, ma debba mantenere il suo legame col paradigma osservativo scientifico, che richiede una certa fiducia nell’esistenza del reale e nella possibilità di indagarlo.
Sembra che parte della psicoanalisi contemporanea offra una permeabilità un po’ modaiola a scuole di orientamento non propriamente freudiano. E questo porta a un allontanamento dalla prassi puramente interpretativa, e trascura la terapia basata sulla necessità di recuperare alla coscienza ciò che agisce come movente occulto del dolore. Lei cosa ne pensa? Ne penso malissimo, e non solo dal punto di vista tecnico. L’oggetto del processo analitico non è – come vorrebbero per esempio le teorie intersoggettive – quel che succede qui e ora tra due persone nella stanza di analisi, non sono i fenomeni direttamente osservabili, bensì ciò che si rende assente, quel che è depositato nei ricordi, nei sogni, nel transfert. Non si può rimpiazzare il registro simbolico, che costituisce la stoffa della analisi, con quello del reale, assumendolo come originario del senso e come responsabile del cambiamento. Mettere in primo piano la relazione con il paziente come strumento operativo della cura fa parte della tradizione analitica e della sua evoluzione rispetto a una fase di ortodossia originaria, in cui l’analista sembrava potere funzionare da interprete oracolare e neutrale delle comunicazioni del paziente; ma nella mia esperienza non ho mai conosciuto un analista che si muovesse così, questa è una visione caricaturale, buona per i film di Woody Allen. Nelle formulazioni più moderne della teoria freudiana sembra si voglia rinunciare al fatto che la relazione è solo un rivelatore, che rinvia a ciò che è inconscio, passato, rimosso; ma anche a ciò che non è mai diventato cosciente, il mondo potente e estremamente drammatico degli oggetti interni. Se tutto questo scompare, ne va di mezzo il tessuto stesso del lavoro analitico. Il nostro compito, come suggerisce il termine «analisi», consiste nel rivoltare il sistema di autorappresentazione che il soggetto ha di se stesso e del mondo, nello scomporre il tessuto apparentemente ordinato della coscienza, così come si sciolgono le sostanze chimiche nei loro elementi originari. E la scoperta è che questo compito conduce anche a trasformazioni del proprio modo di essere nel mondo, quindi modifica le condizioni dell’esistenza.
Oggi l’arte sembra tendere verso una rinuncia a quella velatura dell’inconscio che Freud riteneva indispensabile alla realizzazione di un’opera artistica. Le performance contemporanee fanno irrompere l’orrore, il disgusto, il perturbante senza mediazioni simboliche a rappresentarle. Da Orlan, a Stelarc, a Tracy Emin, ai fratelli Chapman – come ha osservato Massimo Recalcati – la prepotenza dei loro corpi vulnerati, la teatralizzazione del trauma, l’esibizione dei genitali e degli umori corporali implica una irruzione del reale e un complementare collasso del simbolico. Foucault direbbe che si è persa la disparità tra le cose raccontate e il modo di dirle. Lei come legge questo ribaltamento dell’ideale estetico? Condivido il fatto che c’è una tensione che porta al limite della rottura il registro del simbolico, ma questo limite rimane per il fatto stesso che è prevista una scena della rappresentazione destinata a uno spettatore, delimitata da una cornice protettiva che fa sì che quanto vi si svolge venga distinto da un fatto ordinario. Così, la componente simbolica viene spostata dalla figura allo sfondo, dall’oggetto alla relazione con l’oggetto. La differenza però sta nel fatto che l’umore, l’orrore, il terrore, non sono trasformati bensì esibiti senza mediazione. È un fenomeno che contraddistingue anche le forme contemporanee della sofferenza mentale, le quali condividono – pur nella loro eterogeneità – il passaggio dall’universo edipico, in cui prevaleva l’interiorità come luogo del conflitto, all’universo dionisiaco come esplosione dell’esteriorizzazione, dell’obscenus, dell’ecstasis, cioè, letteralmente, dello stare fuori di sé. È come se l’universo dell’azione, della possibilità di operare sulla realtà per forzarla al desiderio, si sostituisse a quello della passione, al lavoro del conflitto, della colpa, dell’interiorità. I nostri pazienti di oggi ci confrontano non tanto con con angosce di separazione, quanto di integrazione, ossia sono terrorizzati dal sentirsi responsabili di se stessi, dal vedersi, dal riconoscersi: ciò che viene evitato è l’angoscia di sé, ma al tempo stesso anche il significato di sé.
Christopher Bollas ha scritto un lungo saggio per illustrare come l’isteria sia tutt’altro che scomparsa. Come si esprime oggi questa forma di sofferenza mentale? Sintomi di conversione somatica di natura isterica se ne vedono ancora, ma contemporaneamente aumenta in modo sconcertante la diffusione delle anoressie e delle bulimie: trovo che sia assurdo chiamarli disturbi della alimentazione, non è altro che una delle negazioni alle quali ci ha abituato la psichiatria comportamentista. L’anoressia è invece un grave disturbo della personalità, è uno stato in cui il proprio corpo diventa un luogo allucinatorio di perfezione, di manipolazione, senza contatto con la realtà, e perciò può essere in qualunque modo abusato, invalidato, o idealizzato. Nelle isteriche le funzioni corporee venivano anchilosate, anestetizzate, paralizzate, rappresentavano sostitutivamente le funzioni psichiche bloccate dal conflitto. Nelle anoressiche, succede esattamente l’opposto, non si limitano a fare delirare un corpo simbolico, ne fanno l’oggetto del loro agire, lo scolpiscono, lo trasformano, lo rendono il luogo di realizzazione di un ideale di bellezza, di potenza, di perfezione, dunque operano sul registro del reale, non su quello del simbolico. Lungi dall’essere mortificato, paralizzato, il corpo della anoressica è esaltato, iperattivo. Tutto ciò ha un nesso con quella proiezione sullo sfondo del registro simbolico di cui parlavamo prima a proposito dell’arte contemporanea: ci sono forme di vita che tornano a investire diversi campi, in qualche modo assumono una valenza circolare.
Pochi giorni fa si è tenuto a Roma un convegno sul disagio della civiltà. A questo proposito, sembra che tra il principio di piacere e il principio di realtà, lungi dall’essersi verificata la progressiva riconciliazione auspicata da Marcuse, si sia invece accentuata la frattura. Quali conseguenze le sembra che abbia la crescente sensazione di inadeguatezza conseguente alle richieste di estrema flessibilità indotte dal mercato del lavoro? È indubbiamente vero che la quota di depressione sociale derivante dalla mancata realizzazione di sé come individuo adulto è oggi imponente; tuttavia, a dispetto della mia visione politica e sociale, quel che posso dirle dal mio osservatorio analitico è che questa forma di depressione non è la stessa che procede dalle cause più remote e profonde. Dunque, è vero che viviamo in una epoca di grande precarietà, e anche di idolatria degli oggetti e delle immagini, e che tutto ciò comporta una perdita di senso; però c’è anche una sofferenza più radicale che deriva dalle forze insopprimibili che risiedono nella natura umana e che travalica le forme di vita storiche e contingenti. Per questo possiamo ancora attingere ai grandi miti del passato: dal punto di vista delle strutture profonde gli uomini di oggi non sono molto diversi da Eteocle e Polinice, Medea e Giasone, o Creso, o Gilgamesh. Basti pensare cosa accade in quelle manifestazioni autorizzate di distruttività che sono le guerre, dove vengono liberati non soltanto gli impulsi a andare alla morte, ma anche la ferocia, l’onnipotenza, il sadismo, il piacere di infondere sofferenza all’altro tramite la tortura. Ecco, queste componenti non possono essere attribuite a cause esterne, come vogliono coloro che si ostinano a porre il male fuori di sé, nel nemico, nel diverso, nell’altro; bensì stanno dentro di noi e sono il frutto di una circolarità tra pulsioni profonde e contingenze esterne, che favoriscono il loro dispiegarsi. |